venerdì 30 maggio 2008

risposta allo sfogo 4

Ho letto le vostre mail tempo fa e ora che ho un po' più di tempo vorrei dire due parole sul discorso sicurezza/immigrazione che Alessandro ha sollevato.
Io penso che quello che accomuna le persone di oggi sia il non aver capito cosa significa sicurezza... penso che la sicurezza venga sempre e ingiustamente messa in correlazione con l'immigrazione ma non è così a mio parere...
Mi spiego con una metafora. A noi a psicologia hanno insegnato a parlare con metafore quindi perdonatemi se vi può sembrare banale... considerate la sicurezza come una linea curva e l'immigrazione come un'altra linea curva... queste due linee essendo curve si possono intrecciare in qualche modo, in più modi e più volte... quindi anche per immigrazione e sicurezza è così... ma sono due curve distinte e non sovrepposte sempre... è questo la chiave principale... Tra le persone, anche pievesi... io denoto sempre più una forte ignoranza... ignoranza intesa come sostantivo di ignorare... non in senso dispregiativo. La sicurezza è sia una sensazione sia qualcosa di reale. L'immigrazione è solo realtà. E le due cose non coincidono.La sicurezza reale si fonda sulla matematica e riguarda le probabilità che si verifichino i possibili rischi e l’efficacia delle misure di protezione adottate. Possiamo infatti facilmente valutare quanto è sicura la nostra abitazione rispetto ai furti prendendo in considerazione fattori quali il tasso di criminalità del quartiere nel quale viviamo o la nostra abitudine di chiudere sempre a chiave la porta di casa. Possiamo anche calcolare con facilità la probabilità di essere assassinati in strada da uno sconosciuto o nella nostra abitazione da un familiare. Possiamo infine calcolare la probabilità di essere vittima di un furto d’identità. Dato un insieme abbastanza vasto di statistiche sugli atti criminali tutto ciò non è molto difficile: le compagnie assicuratrici lo fanno da tempo. Possiamo anche calcolare di quanto un antifurto può aumentare la sicurezza della nostra casa o in che modo il blocco del nostro conto bancario ci proteggerà dal furto d’identità. Ancora una volta: data una quantità sufficiente di informazioni ciò è facile. Ma la sicurezza è anche un modo di sentire, un feeling, che non si basa sulla probabilità e sui calcoli matematici ma sulle nostre reazioni psicologiche ai rischi ed alle misure di protezione. Si può essere terrorizzati dal terrorismo o viceversa non sentirsi in nessun modo minacciati da esso. In aeroporto ci si può sentire più sicuri vedendo che le scarpe dei passeggeri sono controllate dai metal detector oppure ciò può lasciare del tutto indifferenti. Ci si può considerare ad alto rischio per quanto riguarda i furti in appartamento, a medio rischio per quanto riguarda l’assassinio ed a basso rischio per il furto di identità. Ed il nostro vicino,nella stessa esatta situazione, potrebbe considerarsi ad alto rischio rispetto al furto di identità,a medio rischio rispetto ai furti in appartamento ed a basso rischio per l’assassinio.
Più in generale, si può essere al sicuro anche se non ci si sente al sicuro e viceversa sentirsi al sicuro anche se in realtà non lo si è. La percezione e l’effettiva sicurezza sono certamente correlate ma non coincidono e sarebbe probabilmente meglio avere due differenti termini per indicare tali situazioni differenti.
Gli esempi di prima li ho presi da un articolo di Psicologia Contemporanea di qualche mese fa. Non so, forse tutto ciò sono solo parole sulla sicurezza dettate dai miei studi etc, ma penso che ci sia poca informazione in generale su tutto ciò... penso che sia giusto lavorare in questo senso...e che si debba cercare di "acculturare" le persone per aver un modo più sano e discutere davvero su basi e conoscenze concrete e non fondato su preconcetti razziali.
Spero in qualche modo di aver dato il mio contributo "democratico" in questa discussione.

Ilaria

mercoledì 21 maggio 2008

risposta allo sfogo 3

Nel mio piccolo, sottoscrivo in pieno il rammarico del relatore pubblico Toni Muzi Falconi per quella che lui definisce la "fine della cesura socioculturale": "invece di quel che accade in altri Paesi, ove sono le elites culturali a impersonare valori, politiche e ambizioni che vengono poi civilmente assimilati e interpretati dal resto dei cittadini; in Italia sono state le elites ad adeguarsi ai valori e alle politiche più becere, impersonate e agite dalle frange più volgari e incolte: di destra come di sinistra, si intende" (articolo pubblicato in http://www.ferpi.it/).
Associata alla retorica del declino nazionale, la situazione è abbastanza deprimente e circoloviziosamente pericolosa.
Sentiamo infatti sempre più ossessivamente dire che siamo un paese allo sbando, economicamente, culturalmente, ecceteralmente...
Ma se ogni tanto noi italians ci prendessimo le nostre responsabilità? Ma se soprattutto ci rendessimo conto che il cambiamento si mette in pratica e non si subisce solamente?
Io ho l'idea che l'Italia possa e debba diventare un paese Cosmopolita; è una riflessione che da geografo mi porto dietro da tempo in considerazione del passato di questa penisola, dei suoi Comuni, delle sue realtà territoriali; abbiamo nel DNA una diversità di popoli, culture, lingue, gastronomie, che insieme rappresentano l'Italia. Sono una ricchezza multiculturale che ha accentuato negli ultimi anni sempre maggiori differenze: tanto che tutti oggi riconoscono che siamo più Italie.
Ecco allora che dobbiamo cercare qualcosa che non sia un minimo comune denominatore al ribasso (l'Altro, il nemico, per ritrovare/creare una fittizia identità); ma una sorta di massimo comune integratore. Per me si tratta di una visione globale, cosmopolita e multiculturale che ha poi ricadute materiali sulla professione, sul nostro modo di agire, sui mercati e i pubblici da raggiungere.
Io riparto da lì. Anzi da qui.

Biagio

(tratto da http://www.pranista.com/)

risposta allo sfogo 2

Innazitutto ringrazio Alessandro per aver animato il blog con una dibattito su un tema oggi fondamentale e su tutte le cronache.
Chiaramente la mia posizione è leggermente diversa da quella di Alessandro.
Parto da alcune frase di un libro che un po’ di tempo fa mi è stato regalato. Si intitola “Ma come sono gli italiani?” e l’autore è Jivis Tegno un giornalista indipendente arrivato in Italia nel 1992. Nel capitolo sugli immigrati (così è stato intitolato) dice: “per venire in Italia spesso gli uomini e le donne straniere, oltre ad utilizzare tutti i propri denari, ricorrono a collette in famiglia o dei prestiti che si vanno ad aggiungere alla somma che, quando possibile, viene inviata da un fratello o da un parente già sistemato in Italia”; “Una volta arrivati in Italia, molti extracomunitari si rendono conto che la nazione non è fatta per loro: nella maggior parte dei casi vengono completamente esclusi dalla società e di conseguenza anche loro non sentono l’esigenza o il desiderio di integrarsi”; “la necessità di abitare in tanti in alloggi piccoli deriva dal prezzo elevato degli affitti delle abitazioni e dalle basse retribuzioni che i datori di lavoro italiani danno”; “più di una volta mi è successo che, mentre ero con i miei amici, in piazza o al mercato o ad una fermata dell’autobus o tra la folla, sia poliziotti che carabinieri ci hanno chiesto documenti mentre raramente ho visto la stessa scena verso italiani”.

Cosa ce ne importa, molti diranno.., se poi noi lavoriamo fino a sera per pagare le rette dell’asilo per i nostri figli? Cosa ce ne importa se poi non possiamo permetterci una casa dignitosa se non accedendovi grazie a cospicui contributi famigliari (per chi se lo può permettere!) o a mutui che difficilmente sono accessibili e “gestibili” per i giovani? Cosa ce ne importa se poi molti atti criminali vedono coinvolti gli immigrati e le nostre città “sembrano-sono” meno sicure?
La mia passione politica, per uno schieramento preciso (che per fortuna si sta radicalmente modernizzando), deriva dall’aver condiviso fin dall’adolescenza alcuni principi che il centro-sinistra promuoveva-ve e che ne hanno generato la nascita stessa fra la fine dell’’800, inizi del ‘900. Mi pare utile in questo dibattito riprenderne almeno 2 e applicarli alla modernità globalizzata:

UGUAGLIANZA: Engels disse che “"E così la diseguaglianza si muta a sua volta in eguaglianza, non però nell'antica eguaglianza naturale degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono oppressi. È negazione della negazione". Poi l'art. 3 della Costituzione afferma che Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,... aggiungendo poi È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...
Se un cittadino straniero vive e lavora regolarmente nel nostro paese, generalmente a basso costo per il datore di lavoro, e paga regolarmente le tasse, perché non dovrebbe avere gli stessi diritti e doveri degli “autoctoni”, magari sulla base di un contratto sociale che può firmare o di cui può essere pubblicamente investito (guardate cosa fa in tal senso il Canada!!)?
Il vero tema oggi in Italia, che la politica non enfatizza a dovere, credo sia la certezza del diritto e della pena. Quest’ultima in particolare dovrebbe colpire tutti coloro, italiani e stranieri, che commettono dei reati. Purtroppo la comunicazione berlusconiana di questi anni ci ha insegnato che la giustizia si può raggirare e comunque la detenzione spesso non è commisurata alla pena. Oltre al diritto dove è finito il meccanismo collettivo delle sanzioni sociali? Perché oggi si ha paura di andare dall’amministrazione, dalle forze dell’ordine (nel rispetto dei ruoli e dei compiti che devono essere chiari e conosciuti) a sottolineare un possibile problema di criminalità, sia essa micro o macro? Perché se a Pieve ci sono delle situazioni sospette non vengono poste a chi di dovere? Perché altre situazioni (come ciò che avviene al Parco l’Isola che non c’è) passano innoservate da parte di chi di dovere? Credo che questi temi debbano essere comunicati e che sia ora che la nostra generazione si impegni seriamente a superare alcuni meccanismi della politica-giustizia-economia che sono irrigiditi, stagnanti e che hanno bisogno di una vera e propria “nuova stagione” per essere anche solo incrinati.

ATTENZIONE VERSO I Più DEBOLI: questo concetto, tanto caro alla cultura cattolica, necessita di essere recuperato e promosso. Una nuova cultura che consideri con attenzione i più deboli, non solo stranieri, può essere perseguita sia attraverso i simboli e la comunicazioni ma anche attraverso impegni concreti. Credo che l’attenzione verso i più deboli (la solidarietà) non sia da intendersi solo in termini di aiuti monetari e non ma anche come opportunità di crescita collettiva delle persone con le quali viviamo quotidianamente. Perché per televisione o nei nostri territori tendiamo a valorizzare esempi e gesti di chi già è affermato? Perché le azioni e i successi di chi già ha sembrano più importanti di altri? Vi assicuro che Venerdì scorso, alla cena marocchina organizzata a Renazzo, l’emozione più grande è stata osservare gli sguardi felici delle donne che, dopo aver preparato per ore la cena, sono state ringraziate da tutti i commensali. Per non parlare dei volti e sorrisi dei bambini stranieri che correvano e parlavano con noi. Bè credo proprio che la serata sia stata più bella e ricca di un qualsiasi programma su Sky o che da Flemming (e anche molto gustosa!).
Per quanto riguarda gli impegni concreti non vi è dubbio che una nuova cultura per esempio del rispetto dell’ambiente debba partire da noi prima che dagli stranieri… che prevedere più alloggi di edilizia convenzionata (per giovani e anziani) nei futuri sviluppi urbanistici sia un compito-dovere delle amministrazioni pubbliche.. così come per i datori di lavori un impegno a “sfruttare” meno per migliorare invece la qualità di vita e le opportunità dei propri dipendenti!!!
Come dice Giddens nel suo ultimo libro (peraltro meraviglioso) “l’Europa nell’età globale”, “la solidarietà sociale è l’integrazione di una società in rete, dai confini porosi, in cui la cittadinanza positiva dà vita ad un insieme efficace di obblighi sociali e ad una cultura ben precisa di rispetto nei confronti degli altri, rispetto che va dagli incontri nella vita di tutti i giorni fino ai rapporti astratti con culture remote”

Scusate lo sfogo, ma ho colto l’occasione per dire alcune cose che penso!!! Credo che SI Può FARE….e comunque sono convinto che siamo noi come Paese (il numero dell’Internazionale che citava la Laura merita in questo senso), come persone, come giovani, a dover evitare di toccare il fondo.

lunedì 19 maggio 2008

Risposta allo sfogo 1

Se non fosse che conosco bene Alessandro, la sua capacità critica e, soprattutto, la sua verve provocatoria mi ribollirebbe il sangue e mi pulserebbe di nervoso la vena della fronte. Penserei: "ma che cavolo, anche tra i nostri c'è chi abbocca al lavoro (eccellente nella sua efficacia) di scarico delle paure collettive sui pericoli (solo in minima parte reali, soprattutto immaginari) da cui l'elettorato vincente si sente assediato?". Invece per fortuna so che quella di Sandro è una provocazione bella e buona e che accolgo con piacere perchè apre un bel dibattito. Ad essa, dunque, rispondo.
Rispondo rifacendomi ad un articolo molto interessante letto proprio ieri sulla rivista Micromega a firma di Rodotà e che si intitola "subalternità culturale". Rodotà fa un'analisi della Lega e della cultura diffusa oggi, e parla di una "cultura separatista, rischiosa non tanto per l'unità nazionale, quanto per la coesione sociale. Da qui la pratica politica di una rappresentanza come contrapposizione all'altro - un altro che comprende l'immigrato, il meridionale, il comunista. Da qui un'idea comunitaria chiusa ed aggressiva". Da qui, aggiungo io, le serate passate in ciabatte lobotomizzati davanti a sky e la percezione di una Pieve di Cento insicura. Continua Rodotà, critico anche verso il PD, dicendo che l'agenda politica oggi è guidata da un'approssimazione culturale che mortifica l'autonomia del giudizio e la possibilità della riflessione critica. Già nel 1994, di fronte al successo di Berlusconi, ci fu una corsa al marketing politico, perchè allora sembrava che l'innovaizone politica si risolvesse in questo. All'epoca si mimava Berlusca, oggi si rischia di mimare la Lega. Ecco infatti che sento dire da più parti: "loro sì che hanno colto i veri problemi della gente, hanno vinto per quello, dobbiamo anche noi riuscire a dare delle risposte concrete ai problemi della gente". Rodotà definisce questo atteggiamento come subalternità culturale, la madre di tutte le sconfitte. E io mi sento molto d'accordo con lui. Con questo non nego il fatto che Berlusca e la Lega abbiano colto dei problemi veri (immigrazione, impoverimento delle famiglie, insicurezza). Solo che, come ha scritto altrove il sociologo A. Dal Lago, li hanno infilati in un "blob" unico e indifferenziato. Il problema dell'immigrazione e dell'insicurezza vanno certo affrontati, ma non posso credere che i soli linguaggi e le uniche ricette possibili siano quelle della Lega. Credo che Veltroni in campagna elettorale avesse gettato buone basi per un discorso autonomo nostro, che partisse dal riconoscimento dei diritti individuali, della coesione sociale, dello sviluppo come base di tutto, in particolare dell'Europa come punto di riferimento.
A proposito d'Europa, due riflessioni:
a) tutti i principali documenti che l'Unione Europea produce come linee guida per gli Stati membri (direttive, programmi, ecc) vanno nella direzione opposta a quella che prende piega in Italia su temi come sicurezza e immigrazione. Neppure l'UE ha capito nulla?
b) la stampa degli altri Paesi d'Europa ha un'opinione del nostro attuale governo e, soprattutto del nostro elettorato, pessima. Basta leggere qualche articolo sulla rivista l'Internazionale. Lo spocchioso intellettualismo di sinistra da tanti condannato dunque affligge tutta la sinistra europea? cioè, è forse un'epidemia? o forse dobbiamo stare attenti a non tentare con un certo elettorato una negoziazione al ribasso eccessivo?
Concludendo le mie farneticazioni.
- Non mi piace la definizione di politica "popolare". Mi sembra ancora un'imitazione di quella populista del Berluscaz. Sono d'accordo (con alessandro ne abbiamo parlato durante un caffè) sulla necessità di un programma che tocchi con incisività quei punti che tanto preoccupano i cittadini, ma li affronti dal NOSTRO punto di vista. Se la gente vuole più polizia perchè si sente insicura, ma l'insicurezza non è da attribuirsi ad un aumento della criminalità (è ad esempio il caso di Pieve), piazzare pattuglie in via Risorgimento e telecamere in Piazza Andrea Costa cosa risolverà? nell'immediato certo la cittradinanza potrà dire "ecco, hanno finalmente fatto qualcosa". Ma il problema dell'insicurezza non è risolto, se a monte la causa è di origine diversa. Anzi, sbagliando le risposte si rischia di aggravarlo il problema. Restando su questo semplice esempio(significativo perchè è quanto spesso si sente dire dalle persone), il vedere delle pattuglie aumenta la sensazione che in giro qualcosa non va, se c'e la polizia. Attenzione dunque alle risposte che si danno ai presunti problemi della gente. Attenzione a distinguere dentro il blob unico e indifferenziato.
- Con la partecipaizone non so voi, ma io non la voglio per niente finire. Su un giornale tedesco un giornalista diceva che in Italia ha vinto Berlusconi perchè gli italiani non vogliono assumersi il diritto/dovere di partecipare, e quindi delegano pigramente a chi pare poter governare da solo, senza scomodare il démos, il popolo. Bè, io me la voglio assumere questa responsabilità e credo sia necessario incentivare gli altri a fare lo stesso.

Laura

Sfogo

"Un bel giorno nel tuo dipartimento arriva un nuovo professore che sostiene che il raffreddore è socialmente costruito. Il giorno dopo, un altro collega dice che tutto, nel mondo fisico e nel mondo sociale, è costruito e motivato da scopi politici il più delle volte inconfessabili. Di qui a sostenere che la scienza e l'oggettività sono semplici forme di violenza il passo è breve e, quando pure la cosa in teoria possa preoccuparci poco, il pratica dovremo rassegnarci a frasi come "Lei se ne approfitta perchè ha ragione", o, magari "Lei ha ragione, dunque ha torto". (M. Ferraris, Scivoloni multiculturali, in Domenica-Il Sole24Ore 18/5/08)

Di fronte a casa nostra da qualche mese abita un numero imprecisato di persone. In un condominio ormai fatiscente - in un centro storico che è si un "gioiellino", punteggiato qua e là di emergenze anche pregevoli come l'attiguo palazzo duecentesco nella piazzetta delle catene, o la piazza stessa, ma nel contempo tristemente abbandonato a se stesso - dove fino a poco tempo vivevano alcune famiglie di meridionali di recente immigrazione, si è stabilita questa colonia di individui (singoli) di provenienza (se la gratuità di questa deduzione non suona violenta) nordafricana.
Questa sera sono uscito per fare una corsetta e per strada "c'erano solo loro". Da PaneVino, sotto i portici, ovunque. Solo loro. Di locali nemmeno l'ombra, tutti - come me fino a pochi minuti prima - rintanati nel proprio bozzolo, con i piedi ben piantati nelle pantofole davanti a un rassicurante pomeriggio di Sky fatto di Sfide Scudetto e altre amenità. Loro invece fuori, per le strade, increduli di avere uno spazio pubblico tutto per loro, e di non dover fare nemmeno la fatica di dover interagire con chi quelle strade le ha abitate da ben prima.
Anche io sono immigrato. Da vicino, è vero, ma lo sono, oggettivamente, simbolicamente. Ho scelto di venire a Pieve anche per sperimentare su di me - ogni giorno - una piccola dose di sradicamento. Per poter conoscere più realtà, per arricchire me e gli altri di nuove relazioni. Sono immigrato perchè ho scelto. Con tutta evidenza si è trattato di una scelta dai rischi molto contenuti, ma che voglio rivendicare con forza. Ma, forse complice il recente cambio di statu sociale che mi ha interessato - sono diventato padre - quell'insicurezza di cui tanto mi sono riempito la bocca oggi mi interessa in prima persona.
Aldo Bonomi ama citare Simone Weil e il suo famoso "chi è sradicato sradica". Ed è un problema che ci riguarda tutti. Ma che riguarda ancor più quanti - lontani da casa, senza lavoro, senza famiglia - le radici le hanno perse davvero. La mia preoccupazione nasce dal vedere che persone che abitano con me - di fatto - con la loro "nuda vita", con la brutale banalità della loro sola presenza (della serie: non è mica mai successo niente) non possono - o non devono - vedere il loro abitare vincolato a regole, a dispositivi di cittadinanza precisi: un lavoro, una sistemazione decorosa, una posizione fiscale... non è la "diversità" che spaventa, ma l'eccentricità rispetto a questo. L'esistenza stessa dello Stato di diritto si fonda su un patto tra persone, che devono essere messe nelle condizioni di rispettarlo.
Ora, mi si dirà, è tutta una questione di percezione. Sei diventato padre, sai com'è, e allora... E qua vengo al tema politico della questione. La dittatura del relativismo (davanti a casa tua non c'è una situazione di palese irregolarità, te la immagini...) Come vedete ho riportato Ferraris in apertura, non certo Ratzinger. Una certa sinistra - ma anche tanto centrosinistra, e anche tanti democratici - hanno implicitamente sempre fatto ricorso alle armi della propria presunta "capacità di lettura" della società per rivendicare la propria supremazia culturale. D'altronde chi, se non Hegel-Marx hanno - in termini teoretici - descritto in una "grande narrazione" la società? Una grande sociologia sopra di noi, in grado di costituire il ponte tra realtà e intervento pubblico (di policy) su questa realtà. Una grande lettura della società incapace - nei fatti - di rispondere ai problemi percepiti come importanti (non esistono i problemi "in natura", acquistabili a peso: gli unici problemi sono quelli che "la gente" avverte come tali).
Ora, non so se tutta questa pappardella sia appropriata - o anche solo applicabile - al caso pievese. Resta la mia preoccupazione personale, il mio timore che - persone sradicate e sostanzialmente abbandonate da tutti: dico ma checcazzo, anche una visita dei Carabinieri li farebbe sentire meno soli...) - decidano di radicarsi addosso a mia moglie, a mio figlio. Ve lo giuro: mai avrei pensato di arrivare a fare questi discorsi. Dico solo che, a un anno scarso dalle elezioni, occorre stare molto ma molto attenti. Vari casi - su tutti il recente di Roma - hanno dimostrato che nessuna "piazza" è certa e scontata per sempre. Se ci fossero oggi le elezioni a Pieve (lasciate stare dati e serie storiche), e se la destra riuscisse ad espriemere un candidato appena appena decente, si perderebbe. Non ci sono santi. Allora io dico apriamo tutti i cantieri che vi pare, facciamo pure i forum, ma scriviamo un programma decente finalmente svuotato di tutta la solita paccottiglia: partecipazione, ad esempio. E' ora di finirla. Facciamo un programma dove scendiamo di qualche gradino (facciamo uno sforzo) verso la gente, e tentiamo di dare risposte serie ai problemi avvertiti come tali (ottimi alcuni ragionamenti fatti per esempio dalla Laura recentemente, avremo modo di parlarne). E' tempo di una politica non populista, ma finalmente davvero popolare.

Alessandro

venerdì 9 maggio 2008

sul caso di verona

Vi sottopongo questo articolo di Ilvo Diamanti. Che ne pensate?


Figli di buona famiglia
di Ilvo Diamanti

"Giovani di buona famiglia". Così vengono definiti i cinque teppisti che hanno ammazzato Nicola Tommasoli. Colpevole di non aver voluto "consegnare" loro una sigaretta, dopo regolare intimazione. Giovani ultrà. Ultrà-giovani. Occasionalmente di estrema destra. Neonazi oppure neofasci. Giovani ultrà. Abituati ad avere uno stadio a disposizione per esibire i loro muscoli, i loro slogan, i loro simboli contro gli altri. I nemici. Gli "altri". Non solo quelli dell'altra parte politica. Dell'altra parte. Ma "gli altri", in generale. Gli stranieri, i nomadi. Gli ebrei. I deboli. Hanno in spregio le persone "comuni". A cui la violenza non piace. Quelli che la sera, in città, tirano tardi con gli amici. E passeggiano in centro città. Immaginando che possa ancora essere una città. Luogo dove, appunto, passeggi con gli amici. Fumi la sigaretta. Chiacchieri. Luogo di relazioni, insomma. Rete di comunità. Non un agguato politico. Ma un'aggressione "per caso". Chissà: gli aggrediti potevano essere leghisti, magari perfino fascisti. In quel momento erano solo persone comuni. Finite sulla strada di persone extra-ordinarie. Super-uomini in libera uscita. Giovani di buona famiglia anche quelli che, a Torino, hanno costretto i vigili ripiegare. Dopo averli circondati e aggrediti, qualche sera fa. La notte prima della festa. I vigili impudenti e imprudenti. Pretendevano di multare le auto in sosta dovunque, in Piazza Vittorio Veneto. In pieno centro. Perfino lungo le rotaie del tram. Tanto la notte non circola. Pretendevano, i vigili. Di interrompere la festa infinita. La "movida", come la chiamano adesso. La notte bianca che si celebra ogni fine settimana. Pretendevano di ostacolare il libero accesso alle auto e ai suv che, ovviamente, sono padroni della notte. (In realtà, anche del giorno). Ovvia la rivolta di questi giovani di buona famiglia contro tanta sfacciata arroganza. Così, a centinaia, hanno costretto i vigili a fuggire. Non senza aver inferto loro qualche colpo, qualche botta. Così, a futura memoria. Certo, in questo caso non li hanno massacrati. Non erano neonazi e neofasci. Solo ragazzi normali, di "buona famiglia". Si sono limitati ad affermare la legge del controllo sul territorio. Filmando la scena, regolarmente diffusa su "You tube". A scopo esemplare.
Questi "figli di" buona famiglia, tecnologicamente attrezzati ed esperti. Per fortuna: sono nati in tempi molto diversi e lontani da quel maledetto 1968, di cui si celebrano i nefasti, a quarant'anni di distanza. L'eredità di illusioni mancate e di violenze mantenute. Questi giovani di buona famiglia, invece, non guardano lontano. Non cercano figure e utopie di altri mondi. Il comunismo, Mao, Che Guevara... Semmai - alcuni di essi - guardano più indietro. Riscrivono storie da cui isolano ciò che interessa loro. Il mito della forza. Il seme della violenza. Che coltivano, quotidianamente, esercitando l'odio contro gli altri. Poveracci, accattoni, zingari e stranieri. Clandestini e non. Perché non conta distinguere, ma categorizzare e colpire "l'altro". Lo stesso che fa paura alla gente comune. Quella che mai si sognerebbe di bruciare un campo nomadi, tantomeno di ammazzare di botte un ragazzo perché non ti dà una sigaretta. Potrebbe essere loro figlio, l'aggredito. E gli aggressori potrebbero essere loro figli. Giovani di buona famiglia. Quelli abituati a sfogarsi il sabato sera, in discoteca, o nei bar del centro. Nelle piazze e nelle strade. Molti bicchieri e qualche pasticca per tenersi su di giri. Per ammazzare il tempo insieme alla noia. E l'angoscia che ti prende, in questa vita normale, in questa società normale, in questa città normale. Dove i divieti sono comunisti e le regole imposizioni inaccettabili. Dove dirsi "buoni" è un'ammissione di colpa. E la debolezza un vizio da punire. Giovani di buona famiglia. Genitori che deprecano questa società senza autorità, senza divieti e senza punizioni. E poi si indignano: di fronte ai divieti e alle punizioni. Alle autorità autoritarie. Quando colpiscono loro e i loro figli. Sempre gli ultimi a sapere. Cadono dalle nuvole, se scoprono cosa combinano, quei loro figli, a cui hanno dato tutto. Senza chiedere nulla. Senza sapere nulla di loro. Questi genitori di buona famiglia. Ce l'hanno contro questa scuola senza voti. Contro i professori che non si fanno rispettare. Contro i maestri che non sanno comandare. Non sanno punire. Questi genitori. Non capiscono e non accettano: i professori che impongono rispetto, comandano e puniscono. E magari bocciano. I loro figli. Giovani di buona famiglia. Figli di buona famiglia. Figli di. (La Repubblica, 5 maggio 2008)